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martedì 24 gennaio 2017

Amarcord (non nostro): "una Partita Particolare" (ma che è bello raccontare)

Amarcord non nostro ma che è bello a parer nostro raccontare... perché CALCIO PICCOLO, CALCIO DI PROVINCIA è CALCIO BELLO.
Riportiamo questi stralci di ricordi di calcio nazionale perché fanno bene alla memoria: quella volta che uno stadio da finale di Champions League fu prestato al calcio minore. Ma potrei ricordare uno spareggio di Promozione forse fra Brescello e Salsomaggiore giocato al "Tardini" di Parma o chissà quanti altri match dilettanti disputati in campi di serie A soprattutto al sud.
Luci al Meazza
3 luglio 2007, Fiorenzo Radogna

Il calcio italiano cambia, gli stadi italiani restano sempre gli stessi. Come se il fascino indubbio dell’età, da solo, dovesse bastare a pedinare il progresso (o più spesso il regresso) di mode, costumi e abitudini della pedata nazionale. Tutti, tranne pochi. Alcuni, fedeli al motto “Bisogna sempre cambiare, per rimanere se stessi”, il proprio volto lo hanno cambiato eccome. Una, due, cinque volte. In attesa della sesta. Il “Meazza” ha da poco compiuto 80 anni. E’ vecchio, grandissimo, scomodissimo (nel suo terzo anello), ha una copertura che fa a pugni col pratone sottostante eppure nessuno lo vorrebbe cambiare. E in pochi, forse qualche furbacchione in cerca di appalti, ne vorrebbero un altro. Quattro file di spalti, una per ogni lato, senza semicurve e con una tribuna coperta in legno e metallo, con le colonne a innervarsi fra i gradoni. Questo è l’originale “Stadio Calcistico San Siro” del 1926, nato dal progetto della coppia Stacchini e Cugini e sviluppatosi su una superficie di 37mila metri quadrati, di cui solo 9mila occupati dal manto erboso. La prima capienza è di 26mila posti, tutti a sedere. Un vero lusso per gli anni ’20. In un epoca dove gli spettatori non solo stanno in piedi, ma possono addirittura addormentarsi senza cadere, tanto sono compressi. Scriverà Gianni Brera: “San Siro…era la ripetizione in cemento armato dei campi provinciali inglesi. Facciamo Ipswich: quattro lati di spalti che lassù sono in legno. Non qui da noi”.
E’ un derby, il 15 settembre, a inaugurare la struttura. Sono anni anonimi per le milanesi, una delle quali si prepara a diventare Ambrosiana. Un po’ come se il Napoli diventasse Gennarina. La struttura è di proprietà del Milan essendone la costruzione interamente finanziata da Piero Pirelli suo presidente. Nel primo San Siro gioca solo il Milan, mentre l’Inter si appoggia ancora all’eterna Arena napoleonica, tranne in occasione delle gare di grande richiamo, quando i suoi 30mila posti non sono sufficienti. Nel 1935 sarà il Comune ad acquistare lo stadio. Per vedere le due squadre milanesi alternarsi sistematicamente sullo stesso terreno di gioco bisognerà però attendere la fine degli anni ‘40. Nel frattempo si sono costruite le quattro semicurve e l’aspetto della struttura diventa ad anello, viene abbassato il terreno di gioco e costruito un utilissimo (ma scomodissimo) parterre. Capienza 55mila posti, disposti su un singolo anello. Proprio a San Siro l’Italia di Pozzo guadagna nei Mondiali nostrani del ’34 il diritto alla finale, battendo in semifinale la fortissima Austria con un golletto di Guaita al 19’ e tanta sofferenza. E’ la prima importantissima sfida internazionale giocata nel catino milanese.
Poi arrivano la guerra, le bombe e gli sfollati, ma San Siro resiste, anzi si rilancia. Grazie al progetto di ristrutturazione di Calzolari e Conca che viene reso esecutivo nel 1954. Si parla inizialmente di dotare il nuovo San Siro di ben 150mila spettatori di capienza. Uno sproposito. E infatti la ricettività verrà poi limitata a “soli” 100mila posti, 85mila un anno dopo con la sistemazione di seggiolini nel settore tribuna e distinti coperti. E’ di gran lunga lo stadio più grande d’Italia e fra i più grandi d’Europa. E’ con questo ampliamento che la struttura acquisterà il secondo anello e quella forma elicoidale esterna, procuratagli dalle rampe di accesso. Una forma che resta nell’immaginario collettivo e nel ricordo di un calcio anni ’60 e ’70 mai abbastanza rimpianto. Gli anni di Mazzola e Rivera, delle Coppe dei Campioni rossonerozzurre, degli scudetti di Moratti padre e di Rizzoli. San Siro diventa quella “Scala del calcio”, con un’enfasi d’altri tempi e altri giornalismi. Un palcoscenico nobile, dove si giocano due finali di Coppa Campioni in pochi anni (nel ’65 Inter-Benfica 1-0 e Feyenord-Celtic nel 1970) ma che non disdegna “marchette” per le serie minori. Il 17 novembre 1974 San Siro viene “prestato” a una gara di serie C fra il Sant’Angelo Lodigiano e il Monza. Finisce 0-0. Sedicimila spettatori e un incasso di 32 milioni. E’ proprio un altro calcio.
Era stato invece un altro sport, il pugilato, a invadere il tempio meneghino del football. Il 1° settembre 1960 Duilio Loi abbatte Carlos Ortiz nella sfida mondiale dei pesi welter junior, con un pubblico record di 55mila spettatori. Intanto il pubblico che si alterna sugli spalti comincia a peggiorare. Negli anni ’70 i più maleducati del secondo anello prendono la brutta abitudine di gratificare gli spettatori nei distinti d’improvvisate “piogge dorate”. Non è raro in quegli anni vedere gente di quel settore assistere alle partite con l’ombrello, anche quando il sole spacca le pietre. E non solo. Più di un tifoso, nei decenni, vola letteralmente dalla struttura. “Ero seduto sulla balaustra del secondo anello, rivolto verso il campo – racconta un tifoso dell’Inter – a un certo punto ho sentito la massa di tifosi alle mie spalle che mi cadeva addosso. Sono volato giù, atterrando nel parterre con la gamba destra. Ho sentito il ginocchio che mi esplodeva”.
Nell’autunno del 1978 si scopre casualmente un cedimento nella struttura portante del secondo livello. Il Milan si lancia verso lo scudetto della stella con una casa parzialmente inagibile. Giocherà con la parte inferiore dell’anello superiore chiusa al pubblico, una capienza limitata a 65mila spettatori e con progressivi problemi di ordine pubblico, culminati nel giorno della festa scudetto. Prima dell’ultima del campionato 1978-79, Milan-Bologna, un Gianni Rivera al passo d’addio al calcio è costretto dal campo ad appellarsi al buon senso dei tifosi che hanno invaso la zona inagibile. Un tifoso calabrese piangente invade il terreno di gioco e afferra il microfono del Golden Boy: “Ho fatto 1500 chilometri per questa festa, non può finire così” singhiozza. Il pubblico rientra nei settori agibili, la partita finisce 0-0. Al Milan il 10° scudetto, al Bologna la salvezza, a San Siro la “patente” per una sopravvivenza che appariva in forse. Non solo, finalmente lo stadio acquista un nome. Tutto suo. E’ quello di Giuseppe Meazza, a cui il 2 marzo del 1980 viene dedicato lo stadio. Meazza, primo grande fuoriclasse italiano degli anni ’30, ha giocato nell’Inter e anche, ma solo un anno e in fase calante, nel Milan. Qualcuno di fede rossonera storce il naso. Meazza si identifica soprattutto con i colori nerazzurri.
Pochi mesi dopo un evento destinato a rimanere nella memoria di molti. Ma il calcio non c’entra nulla. Il 28 giugno 1980 Bob Marley tiene sul pratone dello stadio, davanti a oltre 100mila spettatori, il suo più grande concerto europeo. E’ un’apoteosi. Di musica, di giovani, di canne e idranti. Gli stessi raccontati qualche hanno dopo da Antonello Venditti nella sua “Piero e Cinzia”. Il consolidamento del 2° anello consegna lo stadio agli anni ’80, dove una normativa finalmente codificata in ogni aspetto sancisce una capienza definitiva attorno agli 83mila posti. Che rappresentano il trampolino verso un nuovo, radicale, cambiamento in vista di “Italia ‘90”. E’ in questi anni che viene segnato a San Siro, uno dei gol più belli della sua storia. Lo mette a segno nel secondo turno di Coppa Uefa, il 24 ottobre del 1985, Kalle Rummenigge in un Inter-Glasgow Rangers va a spazzolare le orecchie del suo diretto avversario con una sforbiciata al volo dalle dinamiche irripetibili. L’arbitro tedesco annulla per gioco pericoloso. E per stupidità conclamata (la propria).
Fra il 1988 e il 1990, in vista delle kermesse iridata, viene cancellato l’anacronistico parterre a vantaggio di qualche gradone in più per i posti a sedere delle tribune, mentre viene costruito il terzo terrificante anello, grazie a quattro enormi piloni di sostegno che faranno anche da base per una copertura di metallo e plexiglas posta a 75 metri dal livello del terreno di gioco. La capienza, fra posti persi nel parterre e guadagnati col terzo anello (incompleto all’altezza del tabellone elettronico) sarà fissata a 8550
0 posti, oggi diventati poco meno di 83mila. Spostata la tribuna stampa, fra mille polemiche, dal primo al secondo anello, sistemati i tornelli del “dopo-Raciti”, il prossimo passo per la cattedrale meneghina pare sarà il completamento del terzo anello, con l’aumento della capienza fino a 95mila posti. Per la gioia di quei tifosi-arditi, e sono tanti, che acquistano il tagliando di questo settore, per poi scavalcare e lanciarsi nel secondo anello. Da dove la partita si vede e non sembra una ricostruzione al subbuteo. Sarà la sesta faccia di uno stadio che non smetterà tanto presto di raccontare. Di farci piangere per le vittorie passate e ridere per le sconfitte di una volta.
Fiorenzo Radogna

fonte: http://www.indiscreto.info/2007/07/luci-al-meazza.html


Amarcord: una partita particolare a San Siro

17 novembre 1974, S. Angelo – Monza 0-0. Zero a zero come nelle peggiori, e rare, tradizioni di San Siro. Ma è stato bello lo stesso. Pensate: spettatori e incasso su per giù intorno alla media delle partite di serie A. Sant’Angelo e Monza hanno avuto la loro degna passerella che il tempo minacciava magari di guastare. Invece niente pioggia. Siccità anche in fatto di reti, pochi essendo stati i tiri nello specchio delle porte (tre in quella di Reali, uno in quella di Anzolin). Si è trattato della lacuna più evidente di una gara dignitosamente giocata e a tratti anche piacevole. L’agonismo non è venuto mai a meno e se ha avuto il sopravvento sul gioco puro e dilettevole è stato anche perchè l’avvenimento (giocare a San Siro) era troppo sentito e l’emozione ha frenato i più emozionabili da ricercare in maggior numero fra le fila dei sant’angiolini. Lasciare un buon ricordo a San Siro era il primo impegno sentito con uguale intensità da entrambe le squadre. Che questo “buon ricordo” potesse identificarsi nella pura e semplice vittoria, era quasi scontato, trattandosi di un derby. Ma proprio come nelle più frequenti circostanze del derby di San Siro, la paura di perdere è stata superiore all’ansia di vincere. Lo si è visto quando, ad un quarto d’ora dalla fine, David ha tolto l’unica punta effettiva con cui il Monza aveva fin li operato, Franco Vincenzi, sostituendola con un centrocampista. E di centrocampisti il Monza era già imbottito. Viceversa il Sant’Angelo per la seconda volta consecutiva abbondava in mezze punte che si sperdevano in una irrazionale girandola da cui la squadra, in fase di propulsione, non ricavava alcun giovamento. Sopratutto Servidei, l’unica punta, ne scapitava non trovando un compagno pronto ad appoggiarlo o a cui appoggiarsi, sicchè tutto restava allo stadio intenzionale. In tale contrapposizione il Monza, più organico ed equilibrato, trovava agevole presidiare con concretezza la zona di centrocampo e figurare meglio dell’avversario, con indubbio dominio territoriale. Miglior disposizione, più compatto presidio del centrocampo. Le due cose consentivano alla punta Franco Vincenzi di trovarsi spesso al ridosso del “suo” uomo e non viceversa, impegnandolo pericolosamente proprio sui palloni alti che sono il forte di Acerbi. Così come la punta sussidiaria Antonelli aveva maggiore opportunità di svincolarsi e involarsi in zona di tiro dove però trovava sempre pronto al recupero Cappelletti.
Notevole nella fase centrale della partita l’apporto dei due Sala, il numero 7 Patrizio e il numero 8 Fabio, e non indifferente anche quello di Trinchero, resistente nei contrasti e discreto cursore nonostante l’affrettata preparazione. L’assenza dello squalificato Sanseverino, se da un lato ha privato David di una pedina che avrebbe accresciuto il rendimento offensivo, conferendo nel contempo maggior spettacolarità alle scarne combinazioni, dall’altro gli ha consentito di rendere più ferreo e quadrato il resto della squadra. Ferreo anche se meno quadrato è risultato dall’altra parte, come era prevedibile, il dispositivo difensivo del Sant’Angelo. Mascheroni II, il libero, ha chiuso sempre l’ultimo varco a Vincenzi e ad Antonelli, cercando il disimpegno nei casi consentiti. Cappelletti, avendo a che fare con l’avversario di maggior spicco (quell’Antonelli che a San Siro si sente già di casa…), non s’è limitato, come è suo costume, al controllo ma ha cercato quei collegamenti che ad altri riusciva difficile allacciare in modo spedito. Poco lucido Gorno ha corso molto con meno costrutto del solito. Maffioletti e Acerbi non ci sono parsi sicuri e decisi come altre volte, pur avendo portato il loro decisivo contributo all’annullamento di una superiorità più apparente che effettiva del Monza. A spazzi notevole Fabiano Speggiorin che nello stile ricorda Bicicli. Tutte le volte che il Sant’Angelo riusciva a scrollarsi di dosso l’impaccio del timore, e muoversi senza credere che il terreno di San Siro fosse cosparso di pece, si è visto il Monza perdere in sicurezza e farsi perfino timido. L’ultimo quarto d’ora ha visto i rossoneri correre più dei biancorossi. Il calo, a metà ripresa era stato generale. Nelle gambe dei giocatori il terreno oltre misura per la loro portata, si faceva sentire, com’era prevedibile. C’era da vedere in che misura per l’una e l’atra squadra. Possiamo dire che lo è stato in parti uguali e anche questo spiega e giustifica il pareggio, che è sostanzialmente esatto perchè, il Monza ha dato tutto quello che poteva, il Sant’Angelo, a parte il rendimento alquanto insufficiente di Mazzola e Skoglund, invece no perchè più ha avvertito la responsabilità di giocare di fronte a cotanta platea. Tale responsabilità ha caricato in giusta misura proprio il Monza di solito meno concentrato e più dispersivo. Detto dell’arbitro, eccellente sotto ogni aspetto, ecco qualche appunto.
Un primo pericolo il Sant’Angelo lo ha corso al 23' su impappinamento di Gorno non sfruttato a dovere da Vincenzi. Lo stesso in precedenza s’era esibito in una spettacolare conclusione volante con palla oltre la traversa (azione di Trinchero). Speggiorin (appoggio di Skoglund), impegnava con un tiro da lontano Anzolin al 40' e tre minuti dopo il Sant’Angelo si distendeva nella migliore azione corale: Gorno-Speggiorin-Quintavalle-Servidei con conclusione di testa a fil di traversa di quest’ultimo. Quasi allo scadere del tempo Acerbi, in lieve ritardo di stacco si lasciava precedere da Vincenzi che schiacciava di testa sullo spigolo superiore della traversa. In avvio di ripresa Antonelli e Vincenzi operavano in favore di Trinchero che, in contropiede, s’involava verso Reali. Grande la deviazione a fil di traversa. Al 17' su azione a largo (finalmente!) respiro Gamba mette Antonelli in condizione di segnare ma il centravanti conclude sull’esterno della rete. Una palla-gol pareggiata a due minuti dal termine: Skoglund, liberatosi sulla destra di Michelazzi, suo attento guardiano, trova via libera: si porta avanti la palla controllandola di testa, la falcata è sciolta. Sembra dover concludere strepitosamente in rete quando invece gli manca il guizzo per stringere e tirare da posizione più centrale. Scarica bell’angolo dove Anzolin gli ha chiuso lo specchio della rete e può salvarla. Fosse stato gol per il Monza si sarebbe trattato di una sconfitta immeritata, ma da San Siro si sarebbe levato l’ancestrale boato. Anche se, e questo è un rilievo che farà piacere, fra gli spettatori di ieri più che quarantenni e cinquantenni legati ai ricordi del grande “Nacka”, c’erano molti giovanissimi, il naturale ricambio di una passione eterna.

Classifica: Piacenza e S. Angelo 13, Trento, Udinese e Lecco 12, Venezia, Cremonese, Monza, Seregno, Clodiasottomarina e Padova 11, Pro Vecelli e Sobiatese 10, Belluno 9, Mantova e Vigevano 8, Juniorcasale e Bolzano 7, Mestrina e Legnano 5.

(articolo tratto da “La Gazzetta dello Sport” del 18/11/1974)